Lettera da Sollicciano
Mentre il mondo delle carceri, dei detenuti, degli agenti di custodia e dei rispettivi familiari, dopo le vicende del mese scorso al San Sebastiano di Sassari, ha vissuto momenti di grandi tensioni, a Sollicciano — uno dei penitenziari più grandi d’Italia — si concludeva un torneo di calcio tra squadre interne al carcere ed esterne. L’ultima partita è stata seguita da una semplice cerimonia e da un incontro al quale hanno partecipato amministratori, magistrati, politici, giornalisti e una personalità illustre quale il poeta Mario Luzi. Questo che pubblichiamo quasi integralmente è il testo del documento letto in quella occasione da un rappresentante della Commissione Detenuti. Abbiamo scelto di renderlo noto perché riteniamo che i suoi contenuti siano di grande interesse, meritino quindi di essere comunicati ad un pubblico il più ampio possibile e di essere conosciuti dai cittadini di Scandicci, Comune che con il carcere ha da sempre avuto un rapporto stretto e collaborativo sul piano politico, amministrativo e sociale.

Mi trovo qui a nome della Commissione detenuti di questo carcere (...) Organizzare e partecipare al torneo, di cui insieme stiamo celebrando la giornata conclusiva, è stata per noi, un’esperienza bella e importante (...) resa possibile dalla volontà e dalla collaborazione di un’insieme di persone interne ed esterne all’istituto, a cominciare dalla Direzione (...) Un’esperienza che ha visto il coinvolgimento di circa 450 detenuti - intorno alla metà della popolazione attuale di Sollicciano - alcune decine dei quali hanno contribuito, in modo decisivo, alla buona riuscita della manifestazione. (...) ci pare giusto sottolineare come i detenuti possano svolgere un ruolo attivo, un ruolo da protagonisti, nel modificare fattivamente le coordinate entro cui attualmente si esplica la detenzione nel nostro paese. Eppure, il senso di questa iniziativa, non può essere interamente colto, senza l’odierna giornata (...) di incontro tra il carcere - nelle sue diverse componenti - e la società esterna (...) Oggi infatti, con questa assemblea e con la partita di stamani, questo carcere cessa di essere soltanto una fastidiosa presenza invisibile, un luogo astratto di cui si invoca la necessità, ma della cui concreta esistenza e funzionamento nulla si vorrebbe sapere, ed entra a far parte fisicamente, seppur solo per poche ore, della comunità.
Ecco, crediamo che solo in questa luce può essere colto e, in pari tempo, realizzato compiutamente il senso dell’iniziativa che abbiamo cercato di costruire. Per questo la vostra presenza qui oggi è, per noi, tanto importante. Ciò che vorremmo cominciare a tentare di costruire insieme a voi, anche a partire da giornate come questa, sono le condizioni perché quello che, allo stato, è soltanto un momento episodico di inclusione nella comunità, si trasformi in un fattore permanente, capace di rinnovare in profondità le condizioni di detenzione e lo stesso approccio complessivo al problema del carcere e della devianza. In un contesto di questo genere, non solo si porrebbero le basi materiali per un’autentica politica del reinserimento; ma si produrrebbero
anche le esperienze umanamente più significative per noi detenuti. E’ soltanto in questa prospettiva che si può pensare alla detenzione come ad una tappa per riacquisire cittadinanza. Fuori di ciò, a nostro avviso, non c’è che fallimento; fallimento per noi, certo, ma anche per la comunità nel suo insieme. Sappiamo che quello di cui stiamo parlando non è un cambiamento facile; esso presuppone un mutamento di mentalità e prospettive generali, nella società, dentro l’amministrazione penitenziaria e tra noi detenuti. Sappiamo anche quanto siano esigue e poco significative le nostre forze e capacità. Tanto che queste considerazioni potrebbero indurre, in chi le ascolta, la sensazione vertiginosa dell’utopia. Però abbiamo ritenuto e riteniamo ugualmente giusto ed importante tentare di percorrere questa strada; anche perché l’utopia può essere un orizzonte stimolante, se si presenta come risposta dotata di senso, e quindi possibile, in rapporto a situazioni di vita, percepite in modo problematico all’interno di una comunità. Certo è, comunque, che una simile prospettiva non ha futuro se non trova nella società i punti di riferimento capaci di accoglierla e svilupparla. Ecco quale è la nostra speranza: la speranza del vostro aiuto. Ed è con questa speranza che abbiamo elaborato un progetto, il “Progetto X”, che abbiamo avuto modo di discutere anche insieme alla Direzione, e di cui il torneo di calcio e la presente giornata rappresentano soltanto un momento. E’ infatti ormai da qualche tempo che cerchiamo di trovare le strade e i modi più efficaci per tentare, nel nostro piccolo, di aprire una discussione nella società sull’esistenza del carcere, sul suo funzionamento concreto, su ciò che dovrebbe e potrebbe essere, sul rapporto possibile tra detenzione e nuova cittadinanza. Oggi questa esigenza si è fatta, se possibile, ancora più urgente per noi, a fronte degli scenari inquietanti che sembrano profilarsi sull’uscio del domani e del gran parlare, spesso a sproposito, che ultimamente si fa su temi quali il carcere, la devianza, le possibilità di reinserimento sociale per il condannato, e così via. Sempre più spesso singoli episodi di cronaca nere vengono strumentalizzati - ad di là e a prescindere dal disagio sociale e dal dolore umano che effettivamente provocano - a fini politico elettorali o per fare del sensazionalismo, spendibile, oggi come non mai, sul mercato dell’informazione. A nostro avviso, alla radice di questo modo di presentare ed affrontare problematiche reali della convivenza civile vi è il progressivo affermarsi di un modello sociale che accetta la discriminazione, l’esclusione e l’emarginazione, come mali inevitabili della modernità. Sappiamo di non essere le persone più indicate per fare riflessioni di questo tipo. Nel farle ci sembra giusto così premettere e sottolineare che non possiamo e non vogliamo trovare, in esse, alibi a buon mercato per i nostri comportamenti e le nostre responsabilità soggettive. Non è questa la nostra intenzione quando sosteniamo che nel contesto attuale il carcere tende a divenire sempre di più un invisibile contenitore delle contraddizioni sociali, una facile risposta lavacoscenze a tutto ciò che di problematico tali contraddizioni sollevano. Ad ogni problema che si presenta, si risponde inasprendo le pene già esistenti e/o stabilendo un nuovo titolo di reato. Dalle droghe, all’immigrazione, alle baby gang - tanto per citare alcuni dei temi più abusati dal cliché allarmistico emergenzialista -, sembra che tutto sia risolvibile comminando un bel mucchio di anni di galera; mentre l’assenza di risposte inclusive e costruttive sul piano sociale e culturale resta sepolta sotto una montagna di luoghi comuni, i quali rendono ben ardua qualsivoglia riflessione seria sui problemi e le soluzioni possibili. E’ l’atteggiamento di fondo che informa la nota ricetta della tolleranza zero. Una ricetta tanto più accattivante quanto più sembra promettere rapidità di soluzione a basso costo, tanto per i portafogli quanto per le coscienze, avendo come prerequisito fondamentale la legittimazione etica della legge del taglione. Eppure, a guardare bene, non solo tale impostazione è intrinsecamente in conflitto con i valori affermati dalla nostra costituzione; ma è in realtà anche inefficace rispetto a ciò che, con demagogica faciloneria, promette di ottenere.
Essa è, a nostro avviso, doppiamente rigettabile: una prima volta perché pone l’obiettivo della sicurezza in contrasto con le garanzie ed i valori della costituzione; una seconda volta perché non produce maggiore sicurezza sociale ma una spirale perversa ed inarrestabile di sempre maggiore esclusione, sempre maggiore insicurezza, sempre maggiore repressione. Secondo noi, invece, la risposta più ragionevole ed efficace ai problemi posti alla convivenza da questa età di cambiamenti risiede in una consapevole politica di inclusione nella comunità; è così che si garantiscono i maggiori standard di sicurezza sociale. Per questo, a coloro che vanno dicendo a giro che la legge Gozzini non funziona, crediamo di poter e dover rispondere che ciò è certamente vero: ma non perché si verificherebbero le tanto sbandierate scarcerazioni facili, bensì perché tutto quell’insieme di strutture e disposizioni che doveva essere l’ossatura della legge nella sua attuazione pratica, e che mirava appunto a sollecitare la riqualificazione ed il reinserimento dei condannati, non è mai stato creato. Nonostante ciò, e ci sembra giusto ricordarlo, soltanto una piccolissima minoranza di coloro che usufruiscono della Gozzini, si trovano coinvolti in episodi di illegalità. Si potrà sempre sostenere che, per quanto esigua, tale minoranza produce comunque un danno sociale e che perciò bisogna buttare a mare anche gli altri: è una questione di scelte e modelli sociali a cui si fa riferimento. Noi pensiamo però che non solo sul piano dell’equità, ma anche su quello dei costi sociali, una simile scelta sarebbe miope e disastrosa. Oggi ci troviamo forse ad un bivio che concerne sia il modello generale di convivenza civile, sia il tipo di gestione da dare ai fenomeni di devianza ed emarginazione. In questo contesto anche la vita e il funzionamento delle carceri si trova, crediamo, su di un crinale. Da un lato abbiamo i principi e i valori affermati nella Costituzione, nella legge Gozzini, dell’Ordinamento penitenziario; dall’altro, la pressione crescente del modello che riassume se stesso nello slogan della tolleranza zero; il quale, sul piano della politica penitenziaria si tradurrebbe nella cancellazione di ogni prospettiva di reinserimento. In mezzo ci sono le carceri così come oggi sono concretamente; situazioni in cui, non di rado, tutto ciò che è trattamento e politica di reinserimento (scuola, formazione, intervento culturale e civile) è considerato un optional; situazioni in cui operano 300 educatori per 55.000 detenuti; situazioni in cui la fase del reinserimento nella società è lasciata spesso al caso ed alle risorse individuali, con una forte penalizzazione, nelle opportunità, per le fasce sociali più deboli, tra cui spiccano i detenuti che non sono italiani. In questo quadro generale si producono forti differenziazioni nel significato della detenzione; e ciò, sia in rapporto al carcere e alle aree geografiche in cui ci si trova casualmente detenuti, sia in rapporto alle proprie possibilità economiche. Per alcuni la detenzione ha, almeno in potenza, anche il significato di una nuova possibilità di cittadinanza; per altri, la maggioranza, ha esclusivamente il senso della pena, a volte, in condizioni al limite della vivibilità. Tra questi ultimi c’è la quasi totalità dei detenuti non italiani che una brutta parola coniata ai fini burocratici, ma ormai divenuta d’uso comune, un marchio di discriminazione, definisce extracomunitari: cioè fuori dalla comunità. E’ avendo presente questa realtà complessiva, che qui abbiamo cercato di rappresentare, che noi vi chiediamo di impegnarvi al nostro fianco -nei modi, nei tempi e secondo le impostazioni proprie ad ognuno- per promuovere una battaglia culturale e sociale al fine di puntare a realizzare nella pratica quotidiana ciò che la Costituzione e le leggi vigenti promettono: creare reali percorsi di nuova cittadinanza in luogo dei contenitori di corpi che spesso sono le carceri di oggi. Ciò, a nostro avviso, significa agire lungo tre direttrici: 1, realizzare e promuovere percorsi di reale formazione culturale e professionale in carcere; 2, creare strutture di accoglienza, orientamento e inserimento per le persone (italiane e non italiane) che dal carcere finalmente escono secondo le diverse modalità possibili (e per quelle che in questo modo il carcere possono evitarlo); 3, garantire dentro le carceri livelli di vivibilità umanamente accettabili (sovraffollamento, sanità, alimentazione, rispetto dell’integrità psicofisica delle persone detenute); bisognerà infatti ammettere che la risocializzazione non può prescindere, ma anzi comincia, dal pieno ed effettivo rispetto dei diritti delle persone detenute. Solo così l’Istituzione è a sua volta legittimata nella pretesa di insegnare a rispettare le regole del convivere civile. Ed in questo quadro, nel quadro del rispetto dei diritti umani elementari, ci preme ricordare brevemente la situazione dei tanti detenuti affetti da HIV che spesso affrontano questo terribile male in situazioni di disagio estremo , sia sotto il profilo sanitario che psicologico. In questo senso, la nuova legge in materia, sollecitata tre anni fa sia dalla mobilitazione dei detenuti che dall’impegno di personalità della società civile, si è dimostrata, alla prova dei fatti, fumo negli occhi. Ebbene, per muoversi lungo queste tre direttrici crediamo sia necessario tanto sviluppare informazione e confronto intorno al loro significato, quanto operare praticamente, secondo il loro indirizzo, dentro e fuori le carceri. Nessuno di questi due aspetti però, potrà vivere senza l’aiuto decisivo di persone che sono già inserite nella società e che negli ambienti dove vivono e lavorano possono guidarci. Questo è ciò che domandiamo e che ci permettiamo di domandare anche a voi oggi; che pure già ci avete dato molto, chi aiutandoci per il torneo, chi partecipando all’odierna giornata, tutti avendo la pazienza di ascoltarci. Vorremmo che provaste a pensarci su con calma. Ogni aiuto, ogni idea, ogni progetto è per noi importante. La Commissione Detenuti