con Sarajevo
I bambini, le bambine, i direttori di scuola, gli insegnanti, gli amministratori che sono venuti a Scandicci hanno vissuto insieme il viaggio, il soggiorno ed il ritorno a casa. Sono bosniaci, croati e serbi, musulmani, cattolici ed ortodossi. A Sarajevo hanno tutti vissuto la guerra che ha segnato in modo indelebile la loro esistenza. Ora stanno separati nelle tre municipalità in cui gli accordi di Dayton hanno diviso la città. Ricostruire Sarajevo significa non solo fare case, fabbriche, strade, scuole. Ma riannodare relazioni umane, sociali e politiche che il conflitto civile e militare ha spezzato. In questo difficile obiettivo si riassume il progetto che il Comune di Scandicci sta realizzando ma che senza il coinvolgimento di livelli istituzionali più alti rischia di essere una goccia nel mare. Anche per questo l’Assessore Claudio Raspollini ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi.
Cento bambini e bambine di Sarajevo, cento bambini e bambine di Scandicci e le loro famiglie. Poi i direttori e gli insegnanti delle tre scuole della città bosniaca: Vrhbosna, Sesta Osnovna e Jovan Ducic. E quelli della XXV Aprile, Gabbrielli, Marconi, Pettini, Campana, Fermi, Spinelli-Rodari. Poi la parte politica, gli amministratori di Starigrad, Ilidza e Srpska Ilidza, le tre municipalità in cui gli accordi di Dayton hanno separato Sarajevo seguendo criteri rigidamente etnici: una città per i bosniaci musulmani, una per i croati cattolici, una per i serbi ortodossi. E Luisa Basso, della Teachers International Project organizzatrice delle Cartoline per la Pace. Alla fine tutti molto soddisfatti di come sono andate le cose durante i cinque intensi giorni — dall’8 al 13 maggio scorso — in cui Sarajevo, ricomposta come per miracolo in questa esperienza, e Scandicci hanno messo i primi mattoni per costruire il loro ponte oltre le frontiere. Altri mattoni seguiranno, questa la promessa suggellata da strette di mano e protocolli. Certamente, oltre la ufficialità degli incontri e quella scritta nelle carte, è successo qualcosa di significativo ed interessante soprattutto sul piano delle relazioni personali ed umane nate tra i bambini di Scandicci, quelli di Sarajevo e tra questi e le famiglie. “Siamo diventati amici, rimarremo in contato, e ci piacerebbe tanto rivederci per le vacanze estive”, commentava un genitore a proposito della bambina ospitata in quei giorni. Giorni in cui tutti, bambini ed adulti, hanno anche lavorato sodo.
Scambi sulla didattica, sui programmi, sui sistemi organizzativi scolastici. Riunioni ed incontri. Alla fine l’impegno a restare in contatto, ad attivare canali di comunicazione frequenti e permanenti, e soprattutto ad iniziare un lavoro congiunto tra le tre scuole di Sarajevo. Questo, che altro non è che lo spirito più intimo del progetto, il risultato più importante: l’affermazione, da tutti condivisa, di volersi impegnare per ricomporre ciò che artificiosamente e violentemente è stato separato, nel tentativo di costruire una cultura dell’unità. Questo quello che interessa più di tutto a Scandicci che intende il suo progetto come qualcosa che superi i tradizionali criteri solidaristici
e assistenzialisti. “Potremmo anche decidere di costruire una palestra per una delle tre scuole di Sarajevo”, dice Claudio Raspollini “ma se questa non dovesse poi servire per tutti, indipendentemente dalla etnia e dalla religione dei bambini e degli insegnanti, avremmo fallito l’obiettivo”. In sostanza quello che è successo in questi cinque giorni a Scandicci come modello e laboratorio da iniziare a sperimentare a Sarajevo. Intanto nascerà un giornale telematico in tre lingue -italiano, bosniaco e inglese- scritto dai bambini delle scuole che si scambieranno gli articoli via internet. E su questa idea si è già innestata quella di creare un sito dedicato al Progetto. “Ringrazio tutti per la forte e motivata collaborazione” dice soddisfatto l’assessore Raspollini. Ringraziamenti che vanno al Consiglio Comunale, alla Commissione Consiliare, al Presidente del Consiglio Provinciale e a quello della Giunta della Regione Toscana che in un comunicato stampa ha sostenuto come il progetto di Scandicci sia in perfetta sintonia con quanto la Regione sta cercando di fare nei Balcani. Ringraziamenti ancora per chi — dal Comune alle scuole — ha lavorato senza orario e con grande disponibilità per far riuscire tutto al meglio. Parallelamente va avanti l’iniziativa organizzata da T.I.P. Le cinquemila cartoline per la pace disegnate dai bambini e dalle bambine italiane, tedesche, svizzere e olandesi, dopo essere state esposte nel Palazzo del Comune di Scandicci, con la ripresa del prossimo anno scolastico inizieranno a girare per le scuole. “Da queste cartoline ci piacerebbe far derivare una linea di materiale didattico e scolastico, quaderni, diari, blocchi per appunti” dice ancora l’assessore Raspollini che spera di trovare sponsor ed un editore interessato. In questo caso una parte degli incassi dovrebbe andare a finanziare la continuazione del progetto.
Claudio Armini Cantarelli
Viaggio a Sarajevo
Alla fine di marzo un gruppo di lavoro guidato dall’Assessore Claudio Raspollini si è recato a Sarajevo per mettere a punto i dettagli del progetto e firmare il protocollo d’intesa tra Scandicci e le tre municipilatà nella quali, dopo gli accordi di Dayton, è stata divisa la città bosniaca.

Il Vicesindaco Simone Gheri e l’Assessore Raspollini (al centro) incontrano gli amministratori di Sarajevo.
A tre ore da Spalato si lascia la costa, e tutto cambia. A Ploce incontriamo i primi segni della guerra, i primi convogli militari, in un caffè sul lago i primi sguardi più sospettosi che curiosi. Dopo pochi chilometri si attraversa il ponte sulla Neretva, si piega a sinistra, si inizia a risalire il fiume. Quella che era una delle vallate più coltivate di questa parte della ex Jugoslavia ora, man mano che ci si addentra, appare in tutta la sua desolazione. Campi incolti, rari alberi da frutto inselvatichiti, qualche filare di vite appassita. Lungo la strada -a delimitare la terra, una terra un tempo fertile- solo nastro giallo, chilometri di nastro giallo con scritto “mine”. Capljina è uno dei tanti villaggi che si incontrano. Villaggi bombardati, distrutti. Qualcuno ha iniziato a ricostruire accanto agli scheletri delle vecchie case, o poco fuori, lasciando le macerie a testimoniare. I più se ne sono andati altrove. Molti sono sepolti nei tanti cimiteri che si incontrano lungo la via,
improvvisati, con i simboli cattolici o musulmani o ortodossi a raccontare una divisione che continua anche dopo la morte. A Metrovic passiamo la frontiera che prima non c’era tra Croazia e Bosnia. Sulla strada è un via vai continuo di mezzi militari dello Sfor. Ai lati nastro giallo, camposanti, carcasse di macchine e cumuli di pneumatici ci sfilano di fianco fino a Mostar. Il suo antico ponte romano, crollato sotto le granate, non c’è più: simbolo della guerra rilanciato dalle televisioni e dai fotoreporter in tutto il mondo, abbiamo saputo poi che sarà ricostruito da una società fiorentina. “Per non dimenticare”, è scritto a mano e in inglese su un cartello infilato nelle macerie, accanto ad un bar all’aperto dove -anche se piove e fa ancora freddo- stanno seduti a bere caffè due giovani ragazzi e una ragazza.
Entriamo a Sarajevo dopo altre tre ore di viaggio. Le montagne che la circondano sono ancora innevate, ma i segni della primavera e del disgelo evidenti. Il Monte Igman , da dove i serbi cannoneggiavano, sta lì sopra. Sarajevo, con le sue ferite, lì sotto: il “viale dei cecchini”, il grattacielo accartocciato dell’unico giornale di opposizione della città, “le torri gemelle”, l’Holiday Inn, l’albergo della stampa estera risparmiato dalle granate, la biblioteca nazionale. Una città che gli accordi di Dayton hanno divisa in tre pezzi -serbi, croati, bosniaci- e dove la paura, il rancore, il sospetto e l’odio tra le etnie, le religioni, le persone è palpabile tanto quanto la disperazione lasciata dalla guerra.

Due storie. Nella piazza della fontana, nella vecchia città islamica, a due passi dalla grande moschea, si aggira disperato un uomo senza età, smunto, sdentato, vestito di stracci. Fuma con accanimento e chiede marchi tedeschi, l’unica vera moneta che abbia da queste parti un qualche valore, compreso quello di unificare bosniaci, serbi e croati. Insegnava all’università. Un giorno lo fecero prigioniero. Lo portarono in campo di concentramento dove è stato rinchiuso per sei mesi. Poi è stato liberato e tornato a casa ha scoperto di aver perduto i figli, la moglie, i genitori, la casa. Da quel momento ha perso la testa. Un altro corre tutto il giorno, tutti i giorni, per chilometri e chilometri per le strade di Sarajevo. Indossa una maglietta a maniche corte, estate e inverno, un limone in bocca, un fiore in mano. Forse insegue un sogno, forse fugge da un incubo.

“Il vostro è un progetto unico e di grande significato”, ci ha detto il dottor Brosseghini, vice console italiano a Sarajevo. E lo stesso hanno ripetuto gli ufficiali dei Carabinieri e dell’Esercito. In quei giorni di lavoro passati lì per incontrare i direttori delle scuole, gli amministratori di Starigrad Sarajevo, Ilidza Sarajevo e Srpska Ilidza Sarajevo, firmare il protocollo di intesa, mettere a punto i preparativi per questo viaggio che in molti momenti pareva impossibile da organizzare e che invece c’è stato, tutti ci hanno detto quanto strategica sia la presenza delle forze multinazionali per garantire quella che comunque non si può ancora chiamare né pace né normalità. Poche ore dopo la nostra partenza, in quel bar dove ci siamo salutati con Alma e Dada, le nostre corrispondenti da Sarajevo, tre persone sono state falciate da una raffica di kalashnikov. Due giorni dopo, a pochi chilometri da Sarajevo hanno arrestato un torturatore serbo. Ancora due giorni dopo tre bambini, mentre giocavano in un prato, sono morti saltando su tre mine antiuomo. Ancora giorni dopo la stampa internazionale ha raccontato le testimonianze delle prime donne che coraggiosamente hanno parlato degli stupri subiti durante la guerra. Queste sono le ferite. Ci vorranno generazioni per poterle rimarginare.
Cominciare da questi bambini è giusto. Vale la pena di provarci.
(Cl.Ar.C)


"Signor Presidente"
una lettera dell'Assessore Raspollini a Carlo Azelio Ciampi
“Egregio Signor Presidente, vorrei illustraLe in poche parole il progetto Un ponte oltre le frontiere, per una educazione alla mondialità e alla pace”. Inizia così la lettera che Claudio Raspollini ha scritto a Carlo Azelio Ciampi. Nelle speranze dell’Assessore quella di trovare udienza al Quirinale e, più che un sostegno, un riconoscimento della importanza del Progetto e dell’idea che lo sostiene: una politica di relazioni internazionali tessute dal Comune e fondate non sulla solidarietà, non sulla cooperazione, non sugli aiuti umanitari ma, appunto, sulla educazione ad una cultura di dialogo interetnico ed interreligioso. “La chiave di volta” si legge nella lettera “sono stati i bambini, il loro futuro, un futuro che si costruisce attraverso il dialogo e lo stare insieme, così tutte e tre le etnie, superando le divisioni sono riuscite a dialogare (...)I cardini del nostro progetto sono proprio questi : educazione, dialogo, integrazione” perché, sostiene Raspollini, la tragedia della guerra “oltre a distruggere le case ha distrutto solidarietà e comprensione”. E la convinzione che il Comune pone in questo modo di procedere è tale che l’Assessore vincola a questi criteri il proseguimento e lo sviluppo di questa azione. “Anche per il futuro”, scrive Raspollini, “siamo orientati a mantenere questa logica, ogni finanziamento o aiuto è condizionato, da parte nostra, al dialogo ed alla collaborazione che le tre etnie si sforzeranno di costruire nella loro terra. Qualora il dialogo e la collaborazione venissero meno, anche gli aiuti di conseguenza cesserebbero”. Ora in Comune si spera in una risposta che l’Assessore si aspetta positiva. “Il Presidente Ciampi è stato a Sarajevo in aprile, pochi giorni dopo il nostro ultimo viaggio” dice l’Assessore “è sappiamo quanto alta sia la sua sensibilità verso i problemi dell’infanzia violata”.