Nuova partecipazione
Localmente e globalmente si sperimentano ed affermano forme di partecipazione dal basso, che modificano in parte l’esercizio della democrazia ed i rapporti tra organismi istituzionali e cittadini, tra eletti ed elettori. La strada aperta dall’esperienza innovativa di Porto Alegre con il bilancio partecipativo è diventata un modello a cui altri comuni, come quello italiano di Grottammare, si stanno ispirando. Da quando sono entrati in crisi i partiti di massa la società è in presa diretta con i poteri politici ed istituzionali, ed i comitati di cittadini sono i nuovi luoghi di rappresentanza degli interessi generali e particolari. Sul rapporto tra potere politico e società, è in corso ormai una discussione diffusa. E ci si interroga sulla reale adeguatezza di tradizionali strumenti, come i consigli di quartiere, nell’essere momenti e luoghi di una effettiva partecipazione democratica.
L'imperativo è partecipare, poi vedremo. Ad esempio i primi di novembre (chi non se n’è accorto?) Firenze ha ospitato il Forum sociale europeo, che è stato soprattutto un immenso contenitore di partecipazione, al di là dei contenuti. Lo era a partire dall’organizzazione dell’evento, dalla capacità unica di comunicare, attraverso canali radicalmente innovativi su scala mondiale, la complessità del mondo e dello stesso movimento.
In contemporanea le organizzazioni politiche tradizionali chiedevano una sintesi di tutto ciò che vi veniva fatto e detto, si interrogavano su come far confluire i temi discussi dalla Fortezza da Basso alle sedi istituzionali.
Questa domanda resta senza risposte convincenti, ma chi ha seguito i lavori del Social Forum ha capito che per la prima volta nella storia dell’umanità, centinaia di migliaia di persone di un intero continente hanno potuto “partecipare”, nella prima accezione del termine definita dal Devoto Oli: “Prendere parte a un fatto di ordine o di interesse collettivo”. Poi, appunto, vedremo.
Quanto successo in quello che è stato un evento globale non può essere ignorato su scala locale, specie per una comunità come la nostra che ha avuto l’occasione di vivere l’appuntamento da cinque chilometri di distanza, e che ha assunto una parte attiva nella sua fase organizzativa. Vogliamo dircela tutta la verità? Scandicci sta nel mondo, e come in tutto il mondo negli ultimi venticinque anni con il tema della partecipazione ci siamo soprattutto sciacquati la bocca. Non siamo alla ricerca di scusanti: il fatto è che la tendenza a partecipare va di pari passo con l’intensità degli eventi storici; prima il pianeta sembrava avviato ad una fase di equilibrio tra due blocchi contrapposti; ognuno di questi faceva finta di volersi affermare ma in cuor suo l’intera umanità era convinta che la storia si fosse esaurita in quella contrapposizione; poi uno di quei due blocchi è fallito, è rimasto soltanto l’altro: la storia, fu detto tredici anni fa, è finita più che mai, la mano invisibile di Adam Smith sembrava in grado di guidare il globobus, o almeno quella parte che si era messa in fila al supermercato, quella dove vivevano e vivono ancora le èlite grasse. La storia si è però rimessa in moto quel mattino newyorkese del settembre 2001, quando i telefoni di tutto il mondo squillarono all’unisono senza che nessuno chiedesse di buttare la pasta.
A catena in quattordici mesi abbiamo assistito ai crack di Enron, Vivendi, Worldcom, in Italia al capezzale della Fiat, in Toscana a quello della Piaggio. I conti non tornano più, le amministrazioni pubbliche centrali e locali costrette a giocare con le tre carte, e con i cerini accesi. Al di là dell’oceano si pensa di risolvere tutto con la lotta al terrorismo, con la guerra ai “paesi canaglia”; ma dal nostro versante il Presidente della Commissione Europea Romano Prodi commenta l’esperienza del Forum Europeo, sulle colonne de La Stampa: “E’ la fine del pensiero unico. Finito; il pensiero unico è finito. Sono finiti gli Anni Novanta, o più precisamente quel periodo tra l’87 e il 2001 segnato dalle certezze”. E ora che succede? Prima di tutto per sopravvivere all’apprensione di questo interrogativo, ma sostanzialmente per cercare alternative a quel pensiero unico che non dà più risposte, l’umanità pretende di partecipare a tutti i livelli del brain storming globale. La consapevolezza ci viene dai discorsi sugli autobus e nelle botteghe: anche dietro alle tante serrande chiuse a Firenze dal 6 al 10 novembre c’erano orecchie tese ad aspettare segnali anche minimi, perché la crisi, economica ma soprattutto civile, non piace a nessuna donna e a nessun uomo di buon senso. La sensazione la vivono tutti sulla pelle in questi tempi di incertezza. Forse è anche per questo che tutte le forze politiche cittadine, interrogate da noi su quartieri e su proposte per “forme più avanzate e meno burocratizzate di partecipazione reale”, hanno evidenziato all’unanimità – pur con ricette diverse – la necessità di organismi sempre più vicini alle composite realtà territoriali e civili, che sappiano intercettare le diverse voci della società. Chiedono un’attenzione maggiore dell’istituzione a quello che i cittadini hanno da dire, in primis su piccole cose come le buche o il tempo libero, in ogni caso chiedono contenitori ove far partecipare; al contrario, due anni fa, giusto all’inizio di questa legislatura, le nostre antenne captavano una tendenza politica trasversale, più propensa a non far disturbare il conducente. (Matteo Gucci)

Le Edizioni Centro A-Zeta hanno pubblicato La carta del nuovo municipio, presentata e discussa al World Social Forum di Porto Alegre nel gennaio 2002. La Carta è frutto di una iniziativa del Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti (LaPei) dell’Università di Firenze e di altri laboratori delle università di Bologna, Milano, Roma e Venezia. Alla Carta hanno aderito numerosi amministratori locali ed associazioni italiane che hanno dato vita, nell’ottobre scorso ad Empoli, ad una Rete Nazionale i cui aderenti si impegnano a dare attuazione ai suoi contenuti.

Sul bilancio partecipativo e più in generale su esperienze di democrazia partecipativa
è possibile avere altre notizie consultando i seguenti siti:
www.carta.org
www.unifi.it/lapei
www.budget-participitif.org
http://attac.org
www.altraofficina.it
www.pievealegre.org
www.portoalegre.rs.gov.br

Intervista al Sindaco
Abbiamo bisogno di un
riformismo più coraggioso
La democrazia va nutrita. Il rapporto tra eletto ed elettore non può esaurirsi nell’urna e nella delega. Il sindaco è un punto di riferimento per i cittadini, ma il rischio di confidare in soluzioni individualizzate esiste. La politica per recuperare un ruolo deve aprirsi a nuove forme di partecipazione. La società dei cittadini pone una domanda di democrazia diretta per contare di più nei processi decisionali.
La democrazia rappresentativa è in crisi?
Di sicuro certi strumenti tradizionali si sono inariditi. Allo stesso tempo la società è divenuta più complessa, le domande che pone alla classe politica più precise e con esigenze di risposta più rapide. Quindi bisogna trovare meccanismi che almeno tonifichino un corpo indebolito”.

Quindi, anche per lei, signor sindaco, questa nostra democrazia va nutrita e corroborata? ha bisogno di una buona dose di ricostituente?
“La democrazia italiana è stata costruita dai partiti di massa e si è fondata sui partiti di massa. Fino a quando questi sono riusciti a rappresentare gli interessi della maggior parte degli italiani le cose hanno più o meno funzionato. Poi i partiti tradizionali sono entrati in crisi. Il sistema politico e istituzionale si è evoluto verso il sistema maggioritario. E per dare stabilità ai comuni si è passati all’elezione diretta del sindaco”.
Ed i cittadini, quando hanno qualcosa da dire, nel bene ma soprattutto nel male, vengono dal sindaco?
“Sì. Nonostante una dimensione di città media come la nostra permetta rapporti più facili e ravvicinati. Il cittadino, oggi, scavalca tutti quei passaggi intermedi, di mediazione politica, che c’erano prima. Salta il partito, se ne ha uno, salta il consigliere comunale, salta anche l’assessore.
Per non dire del quartiere. Vuole parlare direttamente al primo cittadino. Perché lo ha votato e quindi gli deve una risposta. O, se non lo ha votato, perché il sindaco è comunque percepito come l’unica persona in grado di dare una soluzione possibile ai suoi problemi”.

Quindi siamo di fronte al fatto che ogni cittadino ha il proprio problema e lo sottopone al sindaco. E la politica resta fuori. E’ così?
“Più che di una politica che resta fuori direi che il cittadino non si sente più tanto rappresentato dalla politica tradizionale.
Non vuole forse più delegare ad altri, e si mette in presa diretta a tutelare il proprio interesse. E lo fa individualmente.
O con altri, in comitati o gruppi di interesse più o meno strutturati. Da un lato questo è positivo, perché produce partecipazione e coinvolgimento. Da un altro lato si corre il rischio di una frantumazione della società che si aggrega su specifici problemi e si disgrega una volta superati o risolti. Se per politica si intende la capacità di una visione d’insieme della realtà, sì oggi questa politica è al palo. Ma lo è per tutti. Il pensiero unico, ha ragione Prodi, è davvero finito”.

E allora?
“Allora non bisogna avere paura di confrontarci con nuove forme di partecipazione alla politica, alla democrazia. Bisogna essere, politicamente ed istituzionalmente parlando, più riformisti innovatori e meno conservatori. Se nella politica e nella democrazia ci sono forme e modi che non funzionano appieno si deve avere il coraggio di intervenire. Le regole, insomma, non possono essere sempre le stesse ed immodificate nei decenni, e le forme debbono aderire via via alla sostanza”.

Un esempio?
“Prendiamo i consigli di quartiere. Nascono nei primi anni ’70 con una doppia ragione. Decentrare alcune funzioni amministrative, rendere più a portata di mano il certificato di nascita o lo stato di famiglia. Far partecipare più da vicino i cittadini all’ammistrazione della cosa pubblica.
Ma sul fronte delle funzioni si è anche decentrato il meccanismo della burocrazia e su quello della partecipazione politica si è clonato il sistema della rappresentanza propria dei consigli comunali. Con l’aggravante che per questi ed i sindaci vige il sistema dell’elezione diretta e maggioritaria, mentre i quartieri sono eletti con modalità diverse.
Oggi tutto questo mi pare sinceramente superato dai fatti, dal bisogno di vera partecipazione espresso dalla società civile. Ma direi che è la stessa democrazia ad aver necessità di corroboranti inieizioni di partecipazione reale e non formale”.

Siamo schietti: non è che si corre il rischio di ideologizzare la partecipazione come toccasana di tutto?
“Può succedere anche questo. Siamo in ogni caso in presenza di una forte domanda partecipativa e di un corposo movimento che ripone la propria forza sulla costruzione di livelli sempre più compiuti di democrazia partecipativa. E’ un movimento che mi pare poco incline a fare sconti alla politica ufficiale dei partiti e delle coalizioni. Né, in questa fase, a farsi cavalcare ed addomesticare. Questo significa che un rapporto con queste realtà è possibile soltanto se ci disponiamo al confronto aperto, senza trucchi. La concertazione è una cosa, la partecipazione democratica a processi decisionali è un’altra cosa. Lo sappiamo bene.
Ed è probabile che il modello della concertazione sia esaurito, appartenga anch’esso ad una fase superata, dove la società era rappresentata dagli interessi socioeconomici organizzati ed associati; mentre oggi la democrazia partecipativa ci viene presentata come un’istanza che attiene ai cittadini, è una forma laica e libera di impegno politico verso la cosa pubblica”. (Claudio Armini)


...e i quartieri?
Lo Statuto è esplicito: il Consiglio Comunale, entro i sei mesi che precedono il temine del mandato elettorale, può decidere il futuro dei consigli di circoscrizione: eliminarli, ridurne il numero, assegnare competenze. Abbiamo chiesto ai gruppi del Consiglio Comunale come valutano l’esperienza dei consigli di circoscrizione, se ne intravedono un futuro, se pensano a forme diverse di partecipazione.

Raffaello Brogi - Democratici di sinistra
“Ci sono realtà dove i consigli di quartiere funzionano meglio, hanno un ruolo in iniziative culturali, con le scuole, nella progettazione del territorio; penso ad esempio a quello di Badia a Settimo e a quanto fatto per i nuovi interventi a Borgo ai Fossi”. Il capogruppo dei Ds Raffaello Brogi evidenzia però che con sei quartieri “il territorio è troppo frastagliato”, ma soprattutto che “i consigli non hanno funzioni deliberative, hanno poca libertà, e invece dovrebbero essere referenti per i cittadini con budget propri e deleghe per quanto riguarda la piccola manutenzione: solo così verrebbero responsabilizzati”. In definitiva “la legge non ci impone certo di mantenerli, ma ogni decisione va presa dopo un serio confronto politico, soprattutto con gli stessi quartieri: è infatti fondamentale il rispetto per organismi che in ogni caso sono stati eletti dai cittadini, ed il riconoscimento dell’impegno a quanti ricoprono le cariche di presidente e di consigliere”.

Francesco Mencaraglia - Rifondazione comunista
“Il giudizio sui consigli attuali non è positivo”, spiega il capogruppo di Rifondazione comunista Francesco Mencaraglia, “come non lo sarebbe quello sulla pastasciutta di un cuoco costretto a prepararla senza sale e con pasta di grano tenero”. Per il Prc “il quartiere non funziona se non si creano le condizioni per cui possa agire”, ma “malgrado questo ci sono stati episodi validissimi, come il confronto fra il quartiere di Casellina e Firenze a proposito del parco di Sollicciano”. Il gruppo di Rifondazione “al momento della discussione dello statuto ha lottato con le unghie e con i denti per difendere la possibilità di mantenerli, rivedendo i punti che non vanno, mentre la maggioranza era pronta a chiuderli. Tanto è vero che il solo documento scritto fornito al consiglio su un possibile futuro per i quartieri è quello presentato da Rifondazione” La proposta è quella “di tentare una operazione tipo ‘Porto Alegre’ in cui la partecipazione trovi poi uno sbocco reale nella definizione dei programmi amministrativi. Tuttavia vediamo ostacoli, anche nel modo burocratico di lavorare della dirigenza: il progetto annunciato a febbraio dall’assessore Gheri di urbanistica partecipata per San Giusto è già ingloriosamente morto”.

Leonardo Signorini - Democrazia è liberta per la Margherita
“Un tutor di quartiere, un referente dei cittadini per viabilità, salute ambientale e tempo libero, nominato dal sindaco e che risponda al primo cittadino; dovrebbe avere capacità decisionale e un budget”. E’ questa la proposta del portavoce della Margherita Leonardo Signorini, basata “sull’esperienza positiva soprattutto dei presidenti di quartiere”. Per quanto riguarda la riorganizzazione del territorio “va tenuto in considerazione il lavoro del piano strutturale e la progettazione del nuovo centro. Attualmente individuerei un quartiere unico per San Giusto, il centro e Vingone, lungo via Roma, uno per Casellina e altri due rispettivamente per Badia e per le colline”.

Erica Franchi - Alleanza nazionale
“I consigli di quartiere riducono la distanza fra cittadino e istituzioni, rappresentano un luogo di incontro tra gli abitanti di una zona che possono esporre le proprie istanze e i consiglieri che conoscono bene il quartiere”. Il giudizio di An è positivo “anche per la funzione mediatrice del quartiere nei confronti del governo comunale. Il consigliere di quartiere è in grado di ricondurre a livello istituzionale le forme di rappresentanza spontanea”. Erica Franchi pensa ad una riorganizzazione territoriale anche in base alle prospettive di sviluppo e ad un’ottimizzazione delle risorse. “L’unico elemento che deve comunque rimanere è la salvaguardia del principio democratico proprio dello stato italiano, basato sulla rappresentanza elettiva, che non può essere sostituito da forme di rappresentanza volontaristiche e quindi soggettive”.

Ilio Trapassi - I democratici per la Margherita
“L’esperienza dei comitati e poi consigli di quartiere va salvaguardata per la parte propositiva e partecipativa”, spiega Ilio Trapassi, anche se questi organismi “sono stati intralciati e poi umiliati con la burocratizzazione e l’assegnazione di mansioni che del quartiere hanno fatto una brutta copia del consiglio comunale”. E’ quindi necessaria a suo parere “una rivisitazione delle funzioni, del numero, di regole per far partecipare associazioni e cittadini, ma al tempo stesso della salvaguardia dei consigli di quartiere eletti dai cittadini. Questa discussione deve essere portata all’interno della prima commissione”.

Pasquale Porfido - Sdi
“L’esperienza è stata positiva negli anni passati nel momento in cui c’era minore informazione e maggiore partecipazione. Adesso devono essere cambiati”. Per lo Sdi i quartieri devono avere competenze specifiche, budget e capacità decisionale. “Sei quartieri sono troppi - dice Porfido - e inoltre accade che questa legge elettorale fa sì che il sindaco, votato direttamente, si confronti direttamente con i cittadini”

Luigi Baldini - Udc
“I quartieri devono essere ridotti a tre: capoluogo, piana e colline. Devono essere rappresentativi di tutte le istanze del luogo e non eletti con il sistema maggioritario, che inibisce la partecipazione e favorisce la maggioranza. I consiglieri devono essere sedici e non nove. Visto che non hanno valore decisionale, almeno che tornino ad avere quello rappresentativo”. Luigi Baldini avverte: “il ruolo dei quartieri lo stanno prendendo i comitati”. L’Udc chiede anche l’apertura di sportelli decentrati per i servizi amministrativi, in rete con il Comune.

Enrico Meriggi - Forza Italia
“Sei quartieri sono troppi; ne proponiamo quattro, ovvero Scandicci con San Giusto e Le Bagnese, Vingone con le colline, Casellina e Badia a Settimo” Anche secondo Meriggi di Forza Italia i consigli dovrebbero avere maggior potere, perché “il quartiere va inteso come risorsa, notiamo che è un punto di riferimento per i cittadini, più che le istituzioni”. “Dovrebbe esistere con un ruolo, un’organizzazione e risorse riviste” dice il capogruppo di Forza Italia “con un maggior peso organizzativo. Così come sono oggi è sicuramente meglio toglierli”. Le competenze dovrebbero riguardare viabilità, vivibilità, abitabilità, strade e giardini.

Luciano Baccetti - Comunisti italiani
Secondo il capogruppo del Pdci i quartieri sono “privi di soldi, di mezzi, e di considerazione. I rappresentanti partecipano alle assemblee senza mezzi. Se non ci crediamo aboliamoli. Se invece pensiamo che abbiano una funzione, ed io ritengo che abbiano quella di primo punto di ascolto, dobbiamo garantire a questi organismi la possibilità di svolgere funzione di raccordo democratico tra cittadini e amministrazione”.

Firmando Giovannetti - Indipendenti per Scandicci
“Sono per dare ai quartieri una forma più rappresentativa della società. Così come sono non servono ed hanno un costo”. Firmando Giovannetti pensa “ad associazioni di categoria e di volontariato, circoli e parrocchie chiamati dal sindaco, dal consiglio o dalla giunta a rappresentare il quartiere”. Una sua proposta alternativa è quella di un assessorato specifico.

POST-IT
Qualche numero
Tra i comuni della cintura metropolitana fiorentina Scandicci è l’unico ad avere i consigli di quartiere come organi istituzionali elettivi. Altrove, come a Sesto Fiorentino o ad Empoli, la partecipazione decentrata è stata organizzata con i centri civici, luoghi di incontro e di riferimento per le associazioni, i cittadini, ecc. Nel 2000 i sei consigli di quartiere di Scandicci si sono complessivamente riuniti per 62 volte ed hanno deliberato 41 atti. Nel 2001 le sedute sono state 73, gli atti votati 33. Nel 2002, i dati sono aggiornati allo scorso mese di settembre, le riunioni sono state 36 e le delibere approvate 25. Negli ultimi tre anni, i consigli di circoscrizione, in 171 riunioni hanno deliberato 99 atti, in media meno di 2 delibere per ogni seduta. La maggioranza delle delibere -44 su 99- ha riguardato il funzionamento interno del consiglio, la gestione dei fondi, l’acquisto di materiali, la fornitura di servizi, la sostituzione di membri dimissionari. Seguono 42 atti che hanno deliberato la concessione di contributi ad associazioni sportive, culturali, circoli didattici per sostenere i loro programmi. Rimangono alla fine le delibere, 13 su 99 negli ultimi tre anni, per interventi direttamente promossi dai consigli, cioè feste, spettacoli, animazioni. Nel 2002 la voce di spesa più rilevante è quella per le indennità di presenza dei 54 consiglieri e dei 6 presidenti calcolata in 33.470 euro. Ad altri 11mila euro ammontano le uscite per contributi alla cultura ed allo sport. Circa 10.000 euro sono stati invece previsti per spese economali, acquisti e prestazioni di servizi. Complessivamente si parla di una cifra che si aggira sui 54/55 mila euro: ma senza le spese per il personale, la manutenzione dei locali, telefono, energia elettrica, riscaldamento, ecc. (Cl.Ar.)

Da Porto Alegre a Grottammare
Il bilancio partecipativo,
passpartout per un’altra democrazia

Bilancio partecipativo: ovvero le istituzioni locali che decidono insieme ai cittadini come spendere il denaro pubblico. Ovvero il modello “Porto Alegre” che dal Brasile sta facendo scuola nel mondo. Ne abbiamo parlato con Giovanni Allegretti, docente di gestione urbana alla facoltà di architettura dell’università di Firenze e responsabile dei progetti formativi della rete europea Democratizer radicalement la democratie.
Cominciamo da qui: democratizzare radicalmente la democrazia. Paul Ginsborg, docente di storia contemporanea, durante il Forum Sociale Europeo di novembre a Firenze, ha sostenuto che la vecchia democrazia rappresentativa mostra grandi crepe ma può rigenerarsi se dialoga e si confronta con la nuova democrazia partecipativa.
“Non c’è dubbio, penso che sia così. Bisogna avere fiducia nell’intelligenza sociale, capire che questa ha possibilità di esprimersi e svolgere un ruolo attivo nel processo decisionale. Si tratta di avere dei luoghi ed una organizzazione del processo democratico dove la popolazione, insieme alla rappresentanza politica democraticamente eletta, compia scelte e stabilisca le priorità economiche, sociali, culturali, urbanistiche da attuare”.

Tarso Genro
ex sindaco di Porto Alegre
Cioè quello che avviene a Porto Alegre?
“Sì, ma anche in altri duecento comuni del Brasile. E che sta iniziando ad accadere anche in Germania, Francia, Spagna e Italia. Non che si tratti di un modello bello e pronto per essere esportato dappertutto. Ma i principi di fondo, quelli sì travalicano la specificità locale”.

E quali sarebbero questi principi?
“Senza partecipazione attiva e diretta dei cittadini al processo decisionale la democrazia non evolve verso forme superiori e ormai necessarie al governo della complessità. Cioè, non basta essere eletti come rappresentanti del popolo per governare nel nome degli elettori. Bisogna costantemente, regolarmente e concretamente verificare durante tutto l’arco della legislatura le scelte e le decisioni e farlo attraverso momenti di partecipazione decisionale dei cittadini. Rivedere alcune priorità; affrontare insieme gli ostacoli che vengono dai livelli superiori di governo, per acquisire forza e creatività attraverso il dialogo sociale. È importante che questo processo si occupi insieme sia del piano strategico, i grandi temi che riguardano tutta la comunità, che dei particolari, i bisogni locali, quelli più semplici, apparentemente insignificanti ma invece di forte impatto sulla vita quotidiana”.

Un esempio, per capire meglio.
“La popolazione deve poter esprimersi su quante risorse destinare allo sviluppo della cultura, o quali grandi opere collettive sono prioritarie. Ma anche dire che deve essere rifatto un marciapiede, un giardino, restaurata una scuola o un edificio. E’ vero che molta parte del bilancio di un comune è bloccata da spese fisse sulle quali non si può discutere. E che è vincolato alle scelte fatte dal governo centrale con la legge finanziaria, la cui approvazione arriva sempre in zona cesarini e costringe i comuni a fare poi le corse per votare i propri bilanci. Ma se il dialogo è strutturato durante l’intero anno, si costruiscono gerarchie chiare che aiutano ad affrontare meglio imprevisti e riduzioni di fondi. E’ anche attraverso la capacità di gestire al meglio le piccole cose e porzioni di risorse limitate che una comunità locale riacquista fiducia nel governo della propria città, sente una amministrazione più vicina, più interessata, più amica”.

Non è una visione un po’ romantica?
“La democrazia cresce e si rigenera se ha in sé anche una buona dose di ottimismo. O di utopia. Non a caso le prime esperienze di democrazia partecipativa sono nate da situazioni di grande difficoltà segnate da profonde crisi della politica e della democrazia rappresentativa. E non parlo soltanto del Brasile o di Porto Alegre. Ma per esempio di Grottammare, il caso più avanzato che abbiamo in Italia”.

Perché, cosa è successo a Grottammare?
“Un piccolo comune della provincia di Ascoli Piceno, quindicimila abitanti, con un sindaco di rifondazione comunista che viene abbandonato dalla sua maggioranza, si mette in presa diretta con i suoi cittadini, li coinvolge appunto in un processo di democrazia partecipativa dal basso e rimane a governare ancora per sette anni, riconquistando tutto l’appoggio che gli è necessario senza attingere né al centrosinistra né al centrodestra”.

A proposito, esiste una dimensione di scala ideale per il modello partecipativo?
“Direi di no. Porto Alegre è una città di un milione e trecentomila abitanti. Grottammare, cento volte più piccola. Scandicci, con i suoi cinquantamila, potrebbe essere una dimensione ottimale. Ma oltre che la quantità servono anche dei requisiti di qualità. Per esempio, il modello di democrazia partecipativa è più difficile da realizzare dove esiste una organizzazione dei consigli di quartiere istituzionalmente determinata ma che nel tempo non si è mostrata troppo vitale. Spesso, infatti, queste strutture ripropongono tutti i limiti funzionali della democrazia rappresentativa”.

Anche lei non vede di buon occhio i consigli di quartiere?
“Non si tratta di questo. E’ che in molti luoghi vivono una forte crisi di identità, sono svuotati di funzioni, di risorse, di competenze. Bisognerebbe avere il coraggio di delegargli davvero poteri decisionali più significativi, come oggi sta succedendo in città come Roma. O di sostituirli con una organizzazione della partecipazione attiva e diretta; purchè non sia episodica, ma strutturata durante l’anno e con regole trasparenti per tutti”.

Organizzare la partecipazione. Esiste un modello di massima?
“Intanto si tratta di superare sia il modello della mera concertazione tra soggetti forti, che la pratica del rapporto individualizzato tra istituzioni e cittadini che, spesso grazie ad un canale privilegiato di contatto, si fanno ricevere dal sindaco per trovare soluzioni ai loro problemi. Si devono creare nuovi spazi pubblici dove i singoli debbano esprimere le loro richieste davanti ad una collettività: così ognuno è forzato a capire se le proprie richieste hanno un valore sociale, o solo egoistico, e si facilitano forme di solidarietà negoziata.
L’importante è che le nuove istanze di discussione non diano a nessun cittadino l’impressione di essere escludenti: e che non siano solo consultive, ma che lo statuto comunale gli dia effettivi poteri decisionali o di indirizzo. A Porto Alegre, per esempio, funziona così. Esistono assemblee di cittadini per zona ed assemblee di cittadini per tematiche: per arricchire la visione della città come un tutto unico e non una sommatoria di richieste locali frammentate. I partecipanti eleggono dei loro rappresentanti nei Forum dei delegati. A loro volta il Forum dei delegati elegge il Consiglio di Bilancio, fatto di cittadini che non abbiano cariche politiche o dirigenziali nelle istituzioni: tutti volontari, tutti eletti annualmente, tutti non rieleggibili per più di due volte consecutive, e tutti con vincoli di mandato, ovvero sfiduciabili dai cittadini se non rappresentano bene chi li ha eletti.
A questo organismo possono partecipare anche rappresentanti del Consiglio Comunale, rappresentanti degli organismi dirigenti e dei lavoratori del comune.
Ma i rappresentanti delle istituzioni non hanno potere di voto. In sostanza il Sindaco dialoga con un Consiglio dei cittadini ‘autonomo’, ed il risultato finale di questo processo di democrazia partecipativa è sintesi politica generale e programma condiviso delle cose da realizzare secondo le priorità stabilite”.

Il sistema però rimane imperfetto. Già oggi i consigli comunali vivono appieno la crisi di identità della democrazia rappresentativa. Domani saranno ancora meno importanti?
“Non penso sia così. Almeno, a Porto Alegre e nelle altre città sudamericane ed europee che sperimentano il Bilancio Partecipativo non è accaduto. Proprio dalla partecipazione dei cittadini diretta e dal basso, il consiglio comunale ha tratto nuovi stimoli per essere maggiormente attivo e propositivo. Qui in Italia potrebbe accadere lo stesso processo rigenerativo. Voglio dire che la partecipazione, se vera e non di facciata, fa bene a tutti gli organi che fanno vivere il corpo della democrazia. Ne riequilibra i compiti, e ne accresce la moralità”.
(Claudio Armini)