CITTA' COMPATTA
Una piazza al centro, la chiesa, il municipio, il mercato, il reticolo di strade dove è facile incontrarsi, dove si lavora, si vive, si trascorre il tempo libero. Dove si usa meno la macchina e più il mezzo pubblico. O ci si muove a piedi e in bicicletta. Questa la pianificazione urbana sostenibile e l’idea di città che stanno nella mente e nei progetti di Richard Rogers, l’architetto anglo-fiorentino, presidente di una task force per la rinascita delle città voluta dal premier britannico Tony Blair, scelto dal Comune di Scandicci per disegnare e progettare il nuovo centro cittadino. E, insieme all’urbanista Giancarlo Paba, coordinatore del Piano Strutturale, per dare un nuovo e più definito disegno ad una città da completare. Filosofie ed idee esposte durante una “conversazione metropolitana” che si è svolta, davanti ad una attenta e numerosa platea di cittadini, studenti, amministratori ed addetti ai lavori, al Teatro Studio. E durante la quale, con una breve comunicazione, Annick Magnier, docente di sociologia urbana, ha disegnato Scandicci come “città promiscua”.
Compatta come lo yogurt di una reclame anni ottanta. La città secondo Sir Richard Rogers. Densa e ben progettata, pianificata “in ogni singolo centimetro di terra per conservare questa inestimabile risorsa”. Come Barcellona, “che ne è un esempio eccellente”, anche se ci sono voluti 15 anni, “e tre sindaci visionari”, ma ha fatto grandi progressi in ambito sociale e fisico. Perché tante persone compattate in poco spazio, non ci crederete, inquinano meno, se hanno compattati vicino casa i servizi. Se soprattutto possono contare su trasporti pubblici che funzionino per davvero, perché usano meno l’auto, ovviamente.
E’ la fine del mito del telelavoro - diciamo noi - così come ce lo avevano prospettato le elite della post post modernità, che appena conosciuta la definizione dello strumento internet ci avevano chiesto di dimenticare la fisicità delle distanze, tanto c’era il cyberspazio. Un intellettuale-scrittore-giornalista, ricordiamo, aveva abbandonato in tutta fretta l’appartamento nell’urbe ed era corso a comprarsi un casolare sugli Appennini: “ho già un modem, che me ne faccio della città?”, disse su per giù e in buona sostanza. Richard Rogers, dalla capitale del Regno Unito dove collabora con il premier Tony Blair come presidente della Task force urbana, è venuto a Scandicci, a presentarsi come il prossimo ideatore del centro cittadino, ma anche per farci presente che “gradualmente si avverte un cambiamento di percezione e la gente sta cominciando a vedere i vantaggi di vivere nel cuore delle loro città”, e ad avvertire i nostri amministratori pubblici: “ma i governi locali devono affrontare un enorme compito se vogliono attirare di nuovo la gente in misura significativa”.

Vogliamo le prove
Di cosa, che diffusi si consuma di più che compatti? Eccole. “Houston, Phoenix e Detroit registrano tutte livelli d’inquinamento allarmanti”, dice Rogers, e parla di “città diffusa”, ovvero della sterminata scacchiera di villette schierate, costruite consumando territorio che lì hanno in surplus. Anche da noi qualcuno prova a imitare quel modello, ma storicamente “la città tipo europea è invece molto più efficiente dal punto di vista dell’energia, con un risparmio significativamente incoraggiato dall’aumento di densità”, mentre in base alle previsioni “il modello americano è quello che consuma più benzina, che in generale ha i consumi energetici più elevati”.

W la novità!
Ma non siamo ad inventare niente, perché a parlare di città compatta ci riferiamo “ad un esempio di schema medievale, che dimostra come il paesaggio urbano non sia drasticamente mutato nell’alfabeto di base”.
Tutto ciò si concretizza nella “piazza centrale, la chiesa, il municipio, il mercato, il reticolo di strade dove gli abitanti si rapportano facilmente, un organismo leggibile, compatto, polivalente, di vita, lavoro e tempo libero”. Elementare Rogers.
L’esperienza è quella che tutti, soprattutto noi fiorentini, abbiamo nel dna. Noi che in ogni piazza abbiamo una chiesa, o un mercato, o un municipio, e che nel reticolo di strade viviamo, lavoriamo e passeggiamo, o forse ci sembra che così sia perché ci ricordiamo di averlo fatto, forse non troppi anni fa.
E l’architetto del governo Blair e della giunta Doddoli ce lo spiega con calma, forse perché anche lui è nato a Firenze: ma alla platea del Teatro Studio lo racconta con pazienza, quasi che si trovasse di fronte a canadesi.
Un po’ ce lo meritiamo.

Ma che c’entra Scandicci?
C’entra eccome, perché lo ha detto Giovanni Doddoli, “è una città da completare” nel centro, ma da completare per davvero e non con una serie di disegni irrealizzabili come l’ultima volta con il Piano Regolatore di Gregotti e Cagnardi. Il Sindaco non dà troppa importanza al fatto che l’architetto collabori con il “vero premier”, che abbia fatto il centro Pompidou di Parigi con Renzo Piano, la National Assembly del Galles sfruttando il vento della baia di Cardiff eccetera eccetera. O almeno sembra che non ci dia importanza quando ammonisce: “controlleremo, saremo guardinghi e severi”, perché già una volta la città si è scottata.

Scandicci si è sempre vantata di essere “una città a maglie larghe” e qui osanniamo la “città compatta”, come se qualcosa non tornasse.
Invece può anche tornare, nel senso: “compatta” come errore di traduzione dall’inglese al latino; forse volevano dire “densa”, e allora va già meglio.
Maglie larghe vuol dire strade e slarghi spaziosi, come via Donizetti a Scandicci o piazza Togliatti.
Chi si scandalizza dei paragoni azzardati esca pure di classe, ma a noi sembra che il parallelo possa stare nel passaggio sull’architettura tardo georgiana, “che puntava a cento appartamenti per ettaro, mentre oggi la tendenza è a trenta”, ma secondo l’architetto “ gli insediamenti di quell’epoca, con i loro viali alberati, le piazze giardino e le facciate ben proporzionate non ti danno la sensazione del fittume”; e per rendere l’idea di quante ricette esistano per mettere tante persone in poco spazio aggiunge: “I Paesi Bassi costituiscono insediamenti compatti di pochi piani. L’ultima volta che sono stato a L’Aja ho visto che è impossibile distinguere l’edilizia pubblica dalle case di proprietà”.

Abbasso il verde pubblico!
No, o forse mah.
Testualmente l’architetto ha detto che “secondo la Task force urbana in Inghilterra l’esigenza è di limitare lo sviluppo ulteriore di terreno a verde”, ristrutturando ciò che è costruito, “di migliorare il design urbano e i servizi pubblici, di aumentare la densità per sostenere i servizi locali e creare un senso più forte di comunità e sicurezza pubblica”.
Ma abbiamo già detto che secondo l’ipse dixit di Rogers densità non vuol dire fittume di volumi in calcestruzzo; nelle foto che ha portato ad esempio alla platea gli alberi si vedevano eccome. E poi Scandicci, lo leggete a pagina 3, ha appena scelto di investire sulla risorsa verde pubblico che qui si attesta su valori da primato, con 20,4 metri quadri che in media sono a disposizione per ogni abitante. Non crediamo sia saggio tornare indietro e speriamo di non aver sbagliato strada.
Ovviamente il nuovo centro sorgerà dove adesso ci sono soltanto campi, ma sono campi di sterpaglie. E poi sulla ricetta di poche righe sopra - “compatti e a maglie larghe – ci sembra che fossimo d’accordo, o no? Rogers ha anche detto: “Pianificare il confine tra costruito e verde è fondamentale”.

La tecnologia buona.
Ne esiste una cattiva? Forse, ma soprattutto a noi pare che Sir Richard Rogers voglia rimettere in ordine di priorità il concetto di progresso e quello di sviluppo (può essere utile rileggersi Pier Paolo Pasolini).
Le conoscenze al servizio del cittadino sono quelle che consentono di progettare palazzi in grado di sfruttare il vento, l’acqua e il sole nelle diverse occasioni per risparmiare energia, di fare ad esempio “un edificio democratico eretto su un plinto d’ardesia che sembra emergere dal mare, con una grande cortina di vetro che rafforzi l’idea di una struttura trasparente in cui le azioni dei politici sono visibili, ed è messo a nudo l’intero processo decisionale del governo”. L’architetto lo può dire, perché così ha pensato e realizzato la National Assembly del Galles.
“Un buon progetto – riassume – ha a che fare con lo sviluppo sostenibile, ovvero deve rispettare le caratteristiche di lunga durata, spazio ampio e bassa energia”.
Il progresso, anche per una città più democratica – “per spingere la gente a partecipare alla vita urbana un ruolo centrale ce l’ha lo spazio pubblico” – e per il vivere quotidiano: “miglior design urbano basato su una migliore istruzione e formazione, migliore pianificazione e orientamento sulla possibilità di finanziamento per garantire una maggiore densità nei nuovi insediamenti, assegnazione del 65% delle spese per i trasporti a progetti a favore di pedoni, ciclisti e utenti dei servizi di trasporto pubblico, creazione di home zones in cui i pedoni sono privilegiati, pianificazione dettagliata da pubblicizzare a livello di quartiere con coinvolgimento degli abitanti nei processi decisionali”.
Non è cattiva neanche l’informatica: “La possibilità di una rete globale di città aumenta le chance di una società non inquinante: non c’è più un bisogno reale di usare carburanti inquinanti a base di carbonio e fossili”.

La tecnologia cattiva.
Vi interessa sapere che ad esempio in Inghilterra ogni anno muoiono in incidenti stradali 26 mila persone e 300 mila restano ferite? “Se dessimo più valore alla vita umana – dice chi pensa alle città per le persone, ovvero sempre Rogers – ci sarebbero molti modi per ridurre il numero di incidenti. L’auto è talmente accettata come parte della struttura sociale che il pedaggio di morti a causa di incidenti viene considerato un evento naturale della vita moderna”.
Le leggi dello sviluppo economico hanno anche portato alla realizzazione negli ultimi anni – ma anche nei prossimi, anche a Scandicci – di centri commerciali fuori dalle città; una sola sentenza: “sono la campana a morto della vitalità dei centri storici”.

I nuovi cittadini, perché “la gente fa le città e le città fanno i cittadini”.
Ormai concludiamo parlando d’Inghilterra.
Ebbene quel paese “ha bisogno di altri 4 milioni di case per i prossimi venti anni. L’80 % di queste serviranno per una sola persona. Oggi la gente si sposa molto più tardi, fa figli molto più tardi, aumentano i divorzi, i pensionati hanno aspettative di vita più lunghe e chiedono tipi differenti di abitazione. Tutta la società sta cambiando rapidamente e tutti questi cambiamenti possono essere affrontati con una pianificazione urbana fondata su una maggiore densità. C’è un grosso potenziale per far crescere un tessuto urbano più vitale. Basta solo scegliere di imboccare questa strada”. Parola di Sir Richard Rogers. (Matteo Gucci)
POST-IT
“meglio vincoli che sparpagliati…”
M
olti tra i più grandi (siamo anche noi quasi cinquantenni cresciuti a pane e tv) ricorderanno quella macchietta televisiva, assolutamente popolarnazionale, che si chiamava Pappagone. Aveva il volto di Peppino De Filippo. Imperversò, se la memoria non mi tradisce, nei primi anni ’70, ed una delle sue sgrammaticate frasi diventò un vero e proprio tormentone: “siamo vincoli o sparpagliati?”, si domandava, alla fine di ogni suo “sragionamento”. Cioè, siamo uniti oppure ognuno va per conto proprio? L’interrogativo, come possiamo ben comprendere, è paradigmatico. E’ possibile riferirlo a qualsiasi domanda ed inquietudine. Ma questo “vincoli” si coniuga molto bene a quella idea di “compattezza” e “densità” di cui parla Richard Rogers. Essere “vincoli” è sicuramente un concetto più socioculturale che urbanistico, ma l’idea di città che ci viene presentata è, anche questa, densa di filosofie e di pensiero che travalicano le teorie della pianificazione urbana. La città di Rogers è infatti una città non solo di uomini e donne, ma per gli uomini e le donne. E impossibile da realizzare senza la “coesione”, la “densità”, la “compattezza” sociale dei suoi abitanti. Essere “vincoli” è anche il principio fondante l’urbanistica partecipata. Scandicci la conosce bene per averla sperimentata in questi anni. Come conosce Giancarlo Paba, docente alla facoltà di architettura di Firenze, che ne è il profeta. A lui tocca la regia del piano strutturale. La scena più difficile da girare sarà quella che, ad un certo punto del copione, dovrà prevedere per forza l’ingresso sul set di Firenze. E’ pressoché impossibile immaginare un futuro urbanistico, sociale, economico, politico, culturale che veda queste due città, ma non solo queste, “sparpagliate”.
La “star”, che in molti danno sul viale del tramonto, dovrebbe comprendere che essere “vincoli” con i coprotagonisti è davvero la chance migliore per poter tornare alla grande sulla scena. La battuta che ci piacerebbe sentire dire la rubiamo ad un grande film, “La donna che visse due volte”, di un maestro, Alfred Hitchcock, e pronunciata da due grandi attori, Kim Novak e James Stewart: “Da soli si va in giro, in due si va sempre da qualche parte”. (Cl.Ar.)

“Città promiscua”
di Annick Magnier docente di sociologia urbana
C
apacità di creare “cultura”, orgoglio di innovare, rivendicazione attiva di autonomia nel definire il proprio futuro, interesse della comunità per le grandi scelte locali: si consolida nei primi atti di definizione del piano strutturale un’immagine di Scandicci come “città”.
Ma quale città è oggi Scandicci? In quale contesto sociale si troverà ad incidere il Piano strutturale?
Scandicci è una città media e piuttosto benestante (è la seconda della provincia per numero di abitanti, ha un buon reddito medio). In migliore posizione quindi di molte altre, superata qualunque forma di emergenza demografica, per dedicarsi alla riqualificazione e alla tutela del suo territorio, ad un attento miglioramento delle sue condizioni di vita. Una città della periferia fiorentina che condivide tuttavia molte risorse e molti problemi con i comuni contermini. Oggi dire ‘periferia’ vuole dire ‘degrado’. Ma la periferia è semplicemente una parte di un sistema urbano; una parte che può essere degradata ma anche di qualità; e che comunque, quasi sempre, assume, rispetto al nucleo centrale, il ruolo di fascia di contatto con il mondo esterno, spesso il motore del suo cambiamento. Ogni periferia, come ogni città, è diversa dalle altre.
La periferia fiorentina esprime il principio di policentrismo nella gerarchia sul quale si struttura l’intero territorio toscano: è fatta di ‘altre città’ e di borghi-‘centri storici minori’ che sono venuti progressivamente ad associarsi per comporre un sistema urbano speciale, il cui proclamato e denunciato ‘disordine’ è nei fatti contemperato dalla permanenza di molti segni riconoscibili di una civiltà urbana straordinariamente ricca. I 57.000 mc di ampliamento di residenze esistenti (per 423.000 mc di volumi residenziali nuovi) registrati a Scandicci tra il 1991 e il 2001 dimostrano, con la spinta costante all’utilizzo intenso delle aree meno dense del territorio cittadino, la diffusione di aspirazioni alla residenza ‘periferica’.
La “colmata” del territorio dell’area fiorentina negli anni cinquanta-sessanta ha generato pochi insediamenti ampi a vocazione residenziale esclusiva, quei grandi quartieri dormitori con i quali da allora nelle grandi città europee, in alcune città italiane, si identifica la “periferia”. Scandicci, passando negli anni Sessanta da 18.000 a 45.000 abitanti è senz’altro la città della prima corona fiorentina che più di altre si è, a un certo momento della storia, conformata a questo modello. Già da allora, tuttavia, nelle nuove case che crescono attorno ai vecchi borghi, si sposta una popolazione, dalla connotazione dominante popolare, ma dalla provenienze e dai mestieri molto vari. Il superamento dei tratti di “dormitorio” è rapido: prima con la rapida crescita degli insediamenti produttivi, poi con il consolidamento della rete commerciale e dei servizi, con la crescita dell’offerta culturale. Scandicci, come tutte le altre città della corona fiorentina, ma sotto alcuni aspetti più delle altre, è cresciuta e negli ultimi decenni si è stabilizzata come città “promiscua”, nella quale si incontrano persone dalle possibilità di vita e dagli stili di vita molto diversi, nella quale non solo si dorme, ma si vive e si lavora. Ciò non significa che questa speciale “periferia” non abbia posto e non continui a porre problemi sociali specifici che condizionano l’intervento pubblico. La stessa “promiscuità” è risorsa e problema.
Nel momento dell’inurbamento massiccio, il principio di autosostentamento del podere si trasforma, fuori dai quartieri operai, in arroccamento nella famiglia e nell’abitazione, mentre i meridionali si trovano spesso privi del sostegno di ampie comunità provenienti dallo loro stessa regione. I luoghi dell’incontro sono già istituzioni: la parrocchia, la casa del popolo, il circolo. Alle istituzioni, in breve, viene tradizionalmente chiesto molto: devono fornire, e lo faranno, non solo servizi pubblici ma anche luoghi e occasioni d’incontro.
Molti fenomeni, a tutti ben noti, accentuano oggi sia questa richiesta, sia i rischi di atomizzazione endemici, che le politiche, sociali culturali ma anche urbanistiche hanno dovuto e devono contrastare. Con l’allungamento della vita media, cresce la proporzione di popolazione sola, debole, meno mobile: il fenomeno è dirompente proprio laddove ci sono state fasi acute di crescita migratoria. La stessa crescita del sistema produttivo genera la necessità di sostenere, in tutte le politiche pubbliche, una popolazione straniera sempre più numerosa ad ambire all’integrazione nella società locale.
Le distanze tra casa e lavoro nell’area fiorentina come altrove, tendono ad aumentare, le donne sempre di più lavorano: le richieste di sostegno pubblico nell’organizzazione della vita quotidiana e nella mobilità sono quindi sempre più pressanti. La popolazione negli ultimi decenni è diminuita (a Scandicci passa dai 53.500 del 1991 ai 50.000 del 2000), e sembra farsi sentire di recente un certo ritorno alla città, ma la richiesta di case adatte alla dimensione nuova e alle condizioni economiche delle famiglie è pressante. Si pendola di più, ma si cambia anche più spesso casa, perché le famiglie sono meno stabili, e anche i lavori: la popolazione è meno radicata che nel passato. Nell’intero sistema urbano fiorentino, si affermano cinque emergenze che pesano sull’avvenire delle città della prima corona: 1) l’emergenza casa. Essa richiede un rilancio forte dell’intervento pubblico per la costruzione e l’adeguamento delle case alle nuove esigenze ma anche una vigile attenzione per la qualità e in particolare l’impatto dell’attività edilizia di ristrutturazione; 2) l’emergenza tempi: l’allungamento dei tempi di trasporti, la distanza crescente tra casa e lavoro, la partecipazione crescente della donna al mondo del lavoro fanno della riforma del sistema di trasporti pubblici la priorità ormai riconosciuta delle politiche urbanistiche, ma devono anche indurre a ripensare gli orari dei servizi e dei lavori, ad uscire dalle rituali affermazioni su “politiche temporali” di cui si parla ma delle quali non si vede nessun effetto concreto; 3) l’emergenza servizi per le attività produttive: sembrano confermarsi le particolarità locali della delocalizzazione industriali che, accanto alle grandi dismissioni, vede l’infittirsi della rete produttiva della prima corona, con l’insediamento di alcune grandi aziende, ma soprattutto con il consolidamento della rete di piccole aziende familiari (quasi la metà delle 3.700 aziende di Scandicci sono ditte artigiane).
Queste attività, tipiche della periferia fiorentina promiscua, devono essere sostenute e integrate nel tessuto urbano con una politica attenta di sviluppo delle infrastrutture di circolazione, di promozione della qualità, anche estetica, degli insediamenti; 4) l’emergenza di tutela del paesaggio e dell’ambiente, acuita dalle pressioni edilizie, dalla tendenza complessiva alla densificazione, dalle debolezze crescenti del sistema di mobilità, dal ricorso crescente alla macchina per gli spostamenti; 5) l’emergenza integrazione: accanto ai servizi sociali, sanitari, scolastici, commerciali, “urbani” in senso classico, la produzione di cultura, di luoghi di incontro, di segni di riconoscibilità della città per una popolazione sempre meno radicata diventa una necessità di base. In questo quadro, quello dell’intero sistema fiorentino, l’intervento varato a Scandicci con il piano strutturale acquista carattere esemplare. All’intervento-chiave previsto nel piano strutturale, il nuovo centro che disegnerà Richard Rogers è affidato il risarcimento estetico di un pezzo “incompiuto” della città di Scandicci, la possibilità di dimostrare che si può innovare a due passi dalla capitale del Rinascimento per gli uni, del tradizionalismo architettonico per gli altri; esso può, deve, anche assurgere ad un compito più ampio: quello di illustrare, con l’autorevolezza dell’architetto, una filosofia di intervento alla quale anche altrove si dovrà attingere per rispondere alle emergenze particolari di questa periferia particolare, quella fiorentina.
Dobbiamo ricreare delle “focalità” nel tessuto urbano, dei luoghi a piedi dove ci si incontri, che siano belli e che per tutti significhino la città, utilizzando i nuovi percorsi, le nuove pratiche di acquisto, di tempo libero e di mobilità, poiché i centri storici minori di rado ormai sono rimasti visitabili, visitabili e significativi. Usando in particolare i nodi nuovi del sistema di trasporto che sempre è stato il primo motore di rivoluzione delle città; qui della tranvia che, quando sarà fatta e se sarà fatta bene nei suoi infimi particolari, allenterà la morsa della macchina non solo sulla città ma anche sulle nostre vite.